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fermoposta@ilsole24Ore.com 31 agosto 2004

Negli articoli pubblicati sullo Speciale di ferragosto, Fabrizio Galimberti (in “Non credete all’oracolo economista”), e Angela Vettese (in “Morta solo per gli estetologi”) sembrano mossi dalla medesima, lodevole, intenzione di rassicurare gli italiani partiti per le vacanze estive che tanto il Capitalismo quanto l’Arte godono di ottima salute, e ne godranno per l’eternità, a dispetto di quei profeti che ne hanno predetto o decretato le rispettive morti - siano stati essi il Marx o l’Argan, hegeliano e comunque “marxista”.
Solo che le smentite di tali nere visioni delle cose, richiederebbero forse degli argomenti più convincenti di quelli che alla fine si riducono nel riscontrare che l’economia di mercato è tuttora viva e vegeta su tutto il pianeta o che mai come adesso sono cresciute a dismisura le figure e le istituzioni che si occupano di arte contemporanea.
Io non voglio sostenere tesi funeree o vitaliste; solo che non posso impedirmi di considerare che vi è pur sempre la prassi dell’accanimento terapeutico; e che neppure è un caso se i miti dei morti viventi (vampiri, zombie, dottori Frankenstein ecc.) non hanno mai goduto di una fortuna così durevole come nell’epoca moderna e attuale.
Per altro il Galimberti, pur di inserire Marx in una lista di profeti falliti, è costretto ad attribuirgli una grossolana “tenebrosa profezia” secondo la quale “il capitalismo crollerà sotto il peso delle sue contraddizioni” – e così poterlo facilmente liquidare ricordando che ciò non è affatto accaduto… con la crisi del 1929!

Olafur Eliasson, Tate, London 2003 - Il Sole... 24 ore. Appunto!
L'argomento ha cercato di prendere una sua propria forma esattamente 10 anni dopo, con LA CONGIURA del Maggio 2014
Anzi il Capitalismo - commenta - “adattandosi alle pressioni dell’ambiente e della società, in un continuo processo di reinvenzione delle istituzioni, non è finito e mai finirà”.
Alla faccia di chi esorta a non credere all’oracolo economista: credete piuttosto all’oracolo metastorico!
A tenebrosa profezia di Marx, splendente profezia e mezza di Galimberti, con la quale il capitalismo, da “storico modo di produzione”, si fisserebbe nel cielo metafisico dell’eternità.
Se veramente si crede che per Marx il capitale doveva crollare (o dovrà crollare) sotto il peso delle sue stesse contraddizioni, al Galimberti rimarrebbe da spiegare, e spiegarci, a cosa immagina che sarebbe servito (a Marx, come a Engels o a Lenin) un “partito”, visto che il capitalismo avrebbe provveduto da solo a farla finita con se stesso. Nel materialismo conseguente, ossia nel comunismo, la necessità di un “Partito” (storico e formale) e della sua azione, dimostrerebbe precisamente il contrario di quanto Galimberti attribuisce a Marx, per il quale, realiter, il capitalismo non finirà mai spontaneamente; così come non finì spontaneamente il feudalesimo, che si trascinò cadavere per qualche secolo prima di venire definitivamente sepolto dall’irresistibile affermazione del Capitale. Dunque ritengo che definire la questione come una “profezia” sia scorretto; e magari, a chi interessa la verità storica, si porrebbe il problema di interrogarsi sulle ragioni dei fallimenti delle azioni storiche del partito formale (prima, seconda e terza Internazionale).
Rimanendo all’ombra dei cipressi (dove invece del Capitalismo si è seppellito – in maniera troppo sbrigativa per essere credibile - il Comunismo) Angela Vettese dubita decisamente dei pretesi funerali (sempre marxisti) all’arte, “ai quali parteciperebbero troppi protagonisti per non essere finti”.
Io non so se l’arte sia morta o meno, ma il più gran codazzo funebre non potrà mai diventare un buon argomento per smentire la presenza di un cadavere; anzi, in simili luttuose occasioni, tutti piangono, ridono, si abbracciano e sbracciano, protagonisti ognuno del proprio dolore o della propria gioia di ritrovarsi…vivi, appunto proprio perché lì c’è un morto che nondimeno li fa muovere tutti verso la propria sepoltura.
Che poi la finzione metereologica di Olafur Eliasson - che per mesi ha illuminato l’interno della Tate Modern di Londra come fosse un sole (similmente ai rosoni delle cattedrali romaniche e gotiche?) - sia stata la mostra di un artista vivente più visitata nella storia, non smentirebbe affatto una eventuale morte dell’arte nell’epoca contemporanea.
Per altro, siamo poi sicuri che quella farsa di Sole non sia stata messa lì appositamente per illuminare la Tate come l’interno di un sepolcro, e che Eliasson, con tale sua pallida rappresentazione, non intendesse appunto invitare il pubblico ad uscire all’aria aperta ed al Sole senz’altro?
D'altronde perché allarmarsi di fronte alle tesi di una “morte dell’arte”? Intere civiltà si sono pasciute proprio delle morti - di una vergine, di un eroe, di un Re o anche di un Dio. Questo non ha certo impedito che città, piramidi, cattedrali o moschee, sorgano tutti su di un proprio particolare cadavere (che quando mancava si è anche inventato). Se poi in mezzo a tutte queste morti possa anche capitare che muoia pure l’arte stessa (per quanto possa darsi per morta una mera astrazione), al più indurrebbe a chiedersi se tale idea abbia contribuito allo sviluppo del pensiero estetico, e trovato pure le sue specifiche forme artistiche, determinate e conseguenti. Nel caso affermativo non avremmo a che fare con una fine dell’arte (nella volgare accezione di una inoperosità artistica), bensì si presenterebbe l’attività di un’arte della fine. Così, in fondo, l’idea della morte dell’arte sarebbe come Genova per un astigiano: un’idea come un’altra.
Liquidate le due tenebrose profezie (ambedue “marxiste”) tutti possono ora essere sicuri che al rientro dalle vacanze estive ritroveranno le cose così come le hanno lasciate, e riprenderanno i loro incarichi.
In fondo ci si può affaccendare attorno ai morti altrettanto infaticabilmente e vantaggiosamente quanto attorno ai vivi.
Con stima,
Lillo Romeo
POSTILLA Il 29 luglio è stata inviata la seguente comunicazione circolare
Carissimi,
solo dopo il soft-happening di Luciano Trina e mio, LA CONGIURA, mi sono imbattuto in un testo di Jean Baudrillard, apparso il 20 maggio 1996 sul quotidiano Libération, che avrebbe potuto (e forse dovuto) figurare tra i testi di orientamento dell'happening.
Per il nostro proposito il titolo sarebbe stato eloquente: LE COMPLOT DE L'ART. La rapida lettura di questo testo ha richiamato immediatamente un testo che invece noi abbiamo indicato: L'INVERNO DELLA CULTURA di Jean Clair del 2011.
Al momento, il ricordo dei contenuti dei due testi mi ha fatto sorgere il sospetto di un particolare limite che i due testi condividono (o possono condividere), e che conto di approfondire. Brevemente, mi è balenata cioè l'idea che a muovere la loro critica vi sia alla base una sorte di rammarico per la perdita dei valori dell'arte attuale (moderna e postmoderna) senza avvedersi che tale perdita porta (o sta portando) a compimento quella dissoluzione dell'aura (da tempo annunciata e analizzata) che sola può premettere a nuove forme di arte in una nuova società... Insomma, non si riesce a vedere che ciò che si "perde" è (o potrebbe essere) proprio ciò che ci fa guadagnare qualcos'altro.
Sarebbe troppo meccanico applicare all'arte il motto che Lavoisier ha coniato per la chimica: nulla si perde, tutto si trasforma?... Non so!...
Tuttavia, si tratterebbe allora di stabilire quali sarebbero (se vi sono) le forme in cui l'arte si è o si starebbe trasformando... Probabilmente questa sarà la riflessione da affidare al prossimo Almanacco di Forniture Critiche - e non è detto che alla fine di una lettura più attenta, i due testi siano immuni da questo affrettato giudizio. Ma anche in tal caso non credo inutile affrontare tale questione.
Per il momento vi saluto e auguro delle magnifiche vacanze.
Lillo Romeo
KARL MARX E LA MORTE DELL'ARTE (ad agosto)_